Un caffè con Manuel Renga

 Un caffè con Manuel Renga

Docente della Civica Scuola di Teatro Paolo Grassi di Milano

Buongiorno Manuel, ho saputo che all’interno della Paolo Grassi tu ti occupi di fare fa tutor per diversi progetti multidisciplinari, che mirano a incrociare i corsi della scuola. Uno fra questi è Finestre sull’Immaginario. Puoi parlarcene?

In Finestre sull’Immaginario gli allievi che lavorano al progetto sono danzatori e registi. È forse il primo momento di incontro all’interno del percorso della scuola fra queste due tipologie di artisti.
I danzatori  fino a quel momento all’interno del loro percorso triennale hanno lavorato sulla tecnica, sulla coreografia, sugli elementi specifici della danza, mentre i registi hanno lavorato sull’analisi del testo, hanno lavorato con gli attori, facendo più teatro classico.

In questo percorso invece vengono condivise con loro diverse conoscenze sulle nuove tecnologie, sul modo in cui alcune compagnie ne fanno uso. Sul terreno del teatro di immagine si incontrano quindi con i danzatori incrociandone le competenze.

È sempre un momento bello perché nascono cose anche inaspettate. Ad esempio nell’edizione 2024, che era la nona, un regista è partito dall’idea del tamagochi, quindi di questo gioco degli anni ’90, per ragionare sul tema dell’assenza e della relazione tra virtualità e realtà. Nella sala c’era un grande tappeto da twister, molto colorato, molto POP, e parlando coi danzatori si è creata una serie di gestualità precise, un alfabeto che i danzatori hanno voluto assegnare a questo personaggio virtuale, ma ballato dal vivo.

C’erano delle videoproiezioni proiettate su questo tappeto a terra che immergevano il danzatore all’interno di uno spazio più virtuale. E il personaggio del Tamagotchi si relazionava invece con un secondo danzatore, che invece si trovava nel pubblico, uno come tanti che si trovavano a giocare con questo tamagotchi, per poi provare quella sensazione di perdita nel momento in cui questo tamagotchi moriva, prima di rinascere ancora infinite volte.

Quando si cerca di mettere assieme a lavorare persone provenienti da discipline artistiche diverse si parla sempre del valore dell’arricchimento nell’incontro e della possibilità di apprendere nuovi strumenti, ma secondo la tua esperienza esistono anche delle problematiche che emergono da questo incontro a cui solitamente non si pensa?

Sicuramente la più importante, quella che in questi anni ritorna più spesso, è la composizione di un alfabeto comune.

Se noi mettiamo insieme artisti che vengono dall’ambito musicale, registi, attori e artisti visivi (videomaker per esempio) ognuno di queste quattro categorie di artisti parla un linguaggio tecnico molto specifico e molto spesso molto settoriale e quindi la cosa che capita regolarmente è che tutti stiano dicendo la stessa cosa, che si trovino concordi su un argomento ma che lo dicano in modo diverso e che questo dirlo in modo diverso comporti il fatto che non sembra che tutti siano d’accordo. Quindi lo sforzo iniziale, nel momento in cui questi gruppi si compongono, è quello di permettere loro di parlare la stessa lingua, di mediare, di facilitare in qualche modo il la comprensione del fatto che io dico una cosa in questo modo, ma è esattamente quella che tu dici nell’altro modo. Quindi siamo d’accordo.

E nel momento in cui questo viene reso evidente, è un’illuminazione per il gruppo, è un “caspita, siamo sulla stessa barca e ci mettiamo tutti con le stesse energie, con la stessa forza, in direzione del nostro obiettivo, nella realizzazione del nostro progetto”.

Per far funzionare questo tipo di progetti serve una gerarchia ben definita?

Non tutti i collaboratori ad un progetto multidisciplinare devono vivere in completa assenza di gerarchia, anzi, molto spesso questo porta più ad una dimensione laboratoriale, conoscitiva, che raramente poi sfocia magari in un progetto, in uno spettacolo che si porta ad un pubblico.
A volte capita. Ci sono esempi illuminati in cui a volte dei gruppi, completamente senza indicazioni o gerarchiche, riescono anche a produrre. Ma è molto raro, secondo me.
Deve esserci una figura che in qualche modo fa da garante, da coordinatore, rispetto all’obiettivo finale che è creare. In un lavoro performativo spesso è il regista che si fa carico di questo onore e onere. O il coreografo se si tratta di un lavoro che non prevede la regia… Insomma, dipende dalle tipologie.

Di sicuro, qualora ci fosse questa leadership, per funzionare dovrebbe essere una leadership che è in grado di creare un ambiente fertile e creativo, perché altrimenti tutto torna a essere soltanto una
persona che ha un’idea e alcune persone che sono al servizio di quell’idea, che devono produrre, generare un servizio per mettersi all’interno di quel progetto.

Però a quel punto l’idea di multidisciplinare si perde, è più un qualcuno che lavora per qualcun altro.

Prima di salutarvi è importante ricordare che, nel momento in cui trascrivo questa intervista,
Il contributo economico del Comune di Milano alle Scuole Civiche è minacciato da tagli avventati, irresponsabili e insostenibili – fino a una riduzione di circa due terzi entro il 2026 – che mettono a rischio l’integrità e la qualità dell’offerta didattica.

Le scuole hanno quindi deciso di lanciare una petizione che potete trovare qui